Come riconoscere le emozioni degli altri: le informazioni chiave secondo uno studio

Come riconoscere le emozioni degli altri: le informazioni chiave secondo uno studio

Secondo un recente studio i sentimenti altrui non vengono valutati solo con il riconoscimento delle espressioni facciali

Le espressioni facciali di un individuo sono fondamentali per il riconoscimento delle sue emozioni. 
Tuttavia questo processo è molto più ampio e profondo di quanto si possa credere. 
Lo ha dimostrato uno studio pubblicato su Philosophy and Phenomenological Research e condotto dalla dottoressa Leda Berio e dal professor Albert Newen dell'Istituto di Filosofia II dell'Università della Ruhr di Bochum (Germania).

I ricercatori, assieme ad un team di esperti, hanno capito che l'individuazione delle emozioni è una parte imprescindibile di un processo che ci aiuta a formarci un'impressione generale di un'altra persona. 
Tale processo include, altresì, le caratteristiche fisiche e culturali e altre informazioni di base.

Cosa sono le emozioni
Le emozioni sono un insieme di reazioni organiche che un soggetto sperimenta nel momento in cui entra in contatto con determinati stimoli esterni. 
Il termine deriva dal latino "emotio" che significa "movimento", "impulso". 
Gli stimoli esterni consentono l'adattamento a situazioni particolari, luoghi, oggetti e persone.

Le reazioni organiche provocate dalle emozioni sono fisiologiche, psicologiche e comportamentali. 
Si tratta, cioè, di reazioni che possono essere sia innate, sia influenzate da esperienze o conoscenze antecedenti. 
Un'emozione, infine, è in grado di generare un comportamento che può essere appreso in anticipo. 
Si pensi alle espressioni facciali.

Comprendere le situazioni influisce sul modo in cui riconosciamo le emozioni
Negli anni '70 fu avanzata la teoria secondo la quale il volto è la finestra sulle nostre emozioni. 
Lo studioso Paul Ekman descrisse emozioni di base come paura, rabbia, disgusto, gioia e tristezza usando espressioni facciali tipiche che sono risultate simili in tutte le culture.

Tuttavia, secondo Newen, negli ultimi anni è diventato sempre più evidente che ci sono molte situazioni in cui una classica espressione facciale non è necessariamente l'informazione chiave che guida la nostra valutazione dei sentimenti altrui.

Aggiunge Berio: «Inoltre a volte riusciamo a riconoscere le emozioni senza vedere il volto. 
Pensiamo, ad esempio, all'espressione di paura che si dipinge sul viso di una persona attaccata da un cane che ringhia e che noi percepiamo anche se siamo di spalle alla stessa o se sentiamo in lontananza i latrati dell'animale».

L'impressione generale
Newen e Berio affermano che il riconoscimento delle emozioni è un sottoprocesso della nostra capacità di formulare un'impressione generale di un soggetto. 
Questa impressione generale è sensibile ad alcune caratteristiche, tra cui l'aspetto fisico, il colore della pelle, l'età, il sesso. Ancora le espressioni facciali, i gesti, la postura.

Sulla base di tali elementi si tende a valutare rapidamente gli altri e ad associare subito lo status sociale ed alcuni tratti della personalità. 
Tali associazioni determinano il modo in cui percepiamo le emozioni altrui. 
Ad esempio una donna viene considerata più incline a sperimentare la paura. Un uomo, invece, la rabbia.

L'importanza delle informazioni di base
Oltre alla percezione delle caratteristiche e delle associazioni iniziali, conserviamo altresì immagini dettagliate di persone che poi utilizziamo come informazioni di base per gli individui della nostra cerchia sociale (familiari, amici, colleghi). 
Ad esempio, se un membro della famiglia soffre di morbo di Parkinson, impariamo a valutare l'espressione facciale tipica di questo soggetto, che sembra indicare rabbia, come neutra. 
Ciò perché siamo consapevoli che un'espressione facciale rigida fa parte della malattia.

Le informazioni di base includono anche modelli di persone di determinati gruppi professionali. 
Afferma Newen: «Formuliamo presupposti stereotipati sui ruoli sociali e le responsabilità, ad esempio di medici, studenti e operai. In genere percepiamo i medici come meno emotivi e questo cambia il modo in cui valutiamo le loro emozioni».

Per concludere, le emozioni di chi ci sta di fronte vengono giudicate utilizzando le caratteristiche e le informazioni di base. Solo in rari casi basta la semplice espressione facciale per decodificare i sentimenti.

Tutto ciò ha un'implicazione sul riconoscimento delle emozioni mediante l'uso dell'intelligenza artificiale la cui affidabilità, secondo Newen e Berio, deve essere approfondita con ulteriori studi.

Le emozioni hanno un'azione sul corpo e ne modificano gli organi: sono informazioni genetiche scritte nel DNA. Cosa fare per non subirne inconsapevolmente gli effetti  i occupa di neuroscienze e di PNEI (Psiconeuroendocrinoimmunologia) dagli anni Ottanta. 
Concluso il periodo dedicato alla “medicina d’urgenza” si è dedicata alla prevenzione e allo studio dei comportamenti. Anna Rita Iannetti, oggi in pensione, è anche autrice del libro Guarire con la neurobiologia (Tecniche Nuove), a metà fra un manuale di medicina e un trattato filosofico sulla conoscenza di sè.

Leggendo il suo testo si scopre che pensieri ed emozioni possono farci ammalare. 
E che i comportamenti potrebbero essere usati come medicine.
“Sappiamo che il sistema nervoso “dirige” ogni funzione d’organo ed è legato indissolubilmente al vissuto emozionale, anche inconsapevole. 
Le emozioni agiscono sul corpo e talvolta lo modificano. Quando si prova paura, infatti, le ghiandole surrenali producono cortisolo e si ingrossano. 
Nel corpo si crea un feeeback che anticipa la costruzione cognitiva dell’evento. 
Esempio: mi spaventa la vista di un uomo incappucciato e temo che mi aggredisca. Il sistema nervoso si comporta come se effettivamente l’uomo mi stesse aggredendo. 
Quando le capacità logiche del sistema nervoso intervengono vuol dire che il cervello ha ricevuto il segnale opposto, che la percezione è cambiata e l’aggressore non è più avvertita come tale. La realtà è stata reinterpretata grazie a una nuova emozione. È sempre l’emozione ad accendere o spegnere il circuito”.

Spesso non ci rendiamo conto di essere fatti così…
“…e subiamo gli effetti degli automatismi. Per questo, per vivere in salute, è fondamentale capire come siamo fatti e riuscire a interrompere ‘il circuito inconsapevole’. 
Chi si occupa di risolvere i conflitti o di mobbing dà sempre più importanza all’igiene ambientale in senso ampio. L’ambiente “buono” non è più solo quello che dispone di terreno, acqua e aria salubri ma anche quello che considera la qualità delle relazioni interpersonali”.

Fuggire le relazioni tossiche?
“Sì. Ma non mi riferisco solo a quelle coscienti. Le più pericolose sono quelle che parlano all’inconscio. 
Se in una coppia c’è disamore e si litiga spesso è più facile che si comprenda il disagio e si cerchi di risolverlo. 
Ma se apparentemente tutto fila liscio e si adottano ripetuti comportamenti che infastidiscono l’altro o ci si convince che va tutto bene mentre si prova disgusto, può accadere che la situazione degeneri fino a farci ammalare”.

Tutte le relazioni mal gestite possono farci ammalare?
“Purtroppo sì, specie se si è inconsapevoli, si pensi al mobbing. 
Fra le cause ambientali di malattia gli agenti chimici e le cause fisiche concorrono rispettivamente al 20%, quelle emozionali-relazionali contribuiscono al 60%.
Il processo che porta ad ammalarsi deriva dalle nostre azioni, dalle condizioni di vita, da come ci comportiamo, da ciò che pensiamo e da quello che proviamo. 
La gran parte di questo insieme è inconscio, chi soffre di malattie cronico-degenerative il più delle volte non ha neanche il sentore di ciò che sta avvenendo e soprattutto ignora che potrebbe interrompere il processo…”

Come si può interrompere il processo?
“Con la conoscenza e con la presa di coscienza. 
Come tutti i viventi, dalle piante agli esseri unicellulari, siamo mossi dalle emozioni primarie, piacere e dolore soprattutto, che non sono altro che codici genetici, presenti nel DNA. 
Nell’uomo la gamma delle emozioni è comunque molto più ampia. È importante insegnare ai bambini a riconoscere le sensazioni e mostrare loro a cosa corrispondono, è una sorta di alfabetizzazione emozionale. 
Si dà il nome a ciò che si prova e si riflette insieme sui comportamenti: "perché quello scatto di rabbia?" L’adulto consapevole del circuito percezione-alterazione d’organo-sistema nervoso-azione saprà accompagnare i piccoli a riconoscere le emozioni e a trasformarle in sentimenti, dunque a ‘modularle’ non a reprimerle.
Oggi sappiamo che l’alessitimia (incapacità di riconoscere cognitivamente le proprie emozioni) è un fattore di rischio per i disturbi della sfera emotiva. Al contrario, riuscire a verbalizzare e poi a razionalizzare la propria esperienza, raccontandola, ne attenua la carica negativa sul corpo”.

Cos’è la PNEI?
“Si fa risalire la psiconeuroendocrinologia alle ricerche di Hans Selye, datate 1936. Selye si accorse che le emozioni avevano un effetto sugli organi del corpo. 
Da qui iniziarono gli studi sulle sollecitazioni ambientali che possono provocare malattie, si pensi alla fisiopatologia delle malattie da stress che oggi è un sapere consolidato.
Fu Selye a coniare le parole eu-stress e di-stress. Il primo è lo stress che fa crescere, il secondo è quello che travalica le personali capacità di adattamento e porta ad ammalarsi. Ciascuno di noi, di fronte alle sfide ambientali, dà una propria risposta e manifesta una singolare resilienza”.

Com’è cambiata la PNEI?
“Oggi sappiamo che l’organismo è ancora più interconnesso, che il cortisolo non è prodotto solo dalle ghiandole surrenali, ma anche dalla pelle,
dal cervello e dall’intestino. 
La reazione di paura coinvolge l’intero corpo. Si sa anche che le emozioni sono informazioni scritte nel DNA e regolano la funzione delle cellule. Ma c’è ancora tanto altro su cui indagare”.

Novembre 2024  il giornale.it
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