osservazioni medico oculistiche - Il valore dei biomarkers in medicina e oftalmologi

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23/03/2024 - Il valore dei biomarkers in medicina e oftalmologi


   Il termine “biomarker” è stato utilizzato la prima volta nel 1973 per indicare la presenza o assenza, in termini generici, di materiale biologico. Gli appellativi “marker biochimico” e “marker biologico” sono comparsi da molto tempo in letteratura, rispettivamente nel 1949 e nel 1957. La ricerca di biomarkers nell’imaging tomografico retinico, sempre più dettagliato e significativo, non poteva non accendere la curiosità verso questa prospettiva. La tomografia a coerenza ottica OCT, ora anche OCTA, capace di indagare i vari retinici senza mezzo di contrasto, è ormai una tecnologia affidabile, veloce, sensibile, di facile utilizzo, con elevate risoluzioni, indicata nella quasi totalità delle patologie oftalmiche. Più di altre tecniche d’imaging offre un terreno fertile per individuare eventuali biomarkers specifici nelle diverse patologie corioretiniche. Indagare e stabilire possibili quanto probabili gerarchie funzionali con gli OCT/OCTA è un obiettivo di ricerca da perseguire, sicuramente ambizioso, certamente utile, che ulteriormente sarà sviluppato con l’evolversi di questa tecnologia.    

    Le considerazioni che scaturiscono dalla disamina della letteratura e dall’esperienza personale, anche se non sistematica, favoriscono alcuni approfondimenti e validi spunti per interpretare un tomogramma OCT/OCTA dal lato funzionale, individuando le alterazioni più significative con dignità di veri markers. I pochi dati finora disponibili sul rapporto struttura/ funzione nelle patologie neuroretiniche, e l’utilizzo relativamente recente della tomografia nell’indagine retinica, costituiscono gli ostacoli più significativi a tale proposito. Con difficoltà si trovano in letteratura studi immediati ed esaustivi sull’argomento. Ogni apporto personale migliorerà la comprensione di questa difficile relazione. La condivisione di più risultati, utilmente coordinati, sarà essenziale per raggiungere dati statisticamente validi ed universalmente accettati. Ogni sforzo verso la ricerca di tracce significative nell’imaging tomografico per suscitare stimoli, più autorevoli e completi studi sull’argomento, non sarà certamente speso invano.                                                                                                                                  

    Dare risposte funzionali alle variazioni strutturali neuroretiniche è la strada giusta per arrivare a diagnosi più circostanziate, nel predisporre razionali e più mirate terapie. Nel 1998, il National Institutes of Health Biomarkers Definitions Working Group ha definito un biomarcatore come “una caratteristica oggettivamente misurata e valutata come indicatore dei normali processi biologici, processi patogeni o risposte farmacologiche a un intervento terapeutico”. I NIH National Institutes of Health, nati nel 1930, con sede a Bethesda nel Maryland, sotto l’egida del governo, utilizzano il 28% circa (26.4 miliardi di dollari) dei fondi annualmente spesi per la ricerca biomedica negli Stati Uniti.                                                                                                                                                      

    Comprendono in tutto 27 Istituti e Centri separati, oltre l'Office of the Director. Una joint venture sulla sicurezza chimica guidata dall'OMS Organizzazione Mondiale della Sanità, in collaborazione con le Nazioni Unite e l'Organizzazione internazionale del lavoro, ha ridefinito un biomarcatore come “qualsiasi sostanza, struttura o processo che può essere misurato nel corpo o nei suoi prodotti e influenzare o prevedere l'incidenza di esiti o malattie”. Una definizione ancora più ampia prende in considerazione gli effetti di eventuali trattamenti e interventi, non escludendo l'esposizione ambientale non intenzionale a sostanze chimiche o sostanze nutritive. Nella relazione sulla validità dei biomarcatori per la valutazione del rischio ambientale lo stesso OMS ha, infatti, ulteriormente esteso la sua definizione: "quasi tutte le misurazioni che riflettono un'interazione tra un sistema biologico e un potenziale pericolo, che può essere chimico, fisico o biologico. La risposta misurata può essere funzionale e fisiologica, biochimica a livello cellulare o un'interazione molecolare". Nel database di Pub Med che censisce le ricerche più accreditate in ambito medico-scientifico, al 2020 si rilevano 928,227 pubblicazioni con il termine “biomarker”. Ne sono stati descritti almeno 100.000; tuttavia il numero attivo nella pratica clinica è di circa 100 unità, utilizzati in più campi.                                                                                

    Si parte dai biomarcatori semplici ed immediati come la pressione sanguigna, la temperatura corporea o la semplice valutazione del polso arterioso, per arrivare ai test ematologici di laboratorio e su altri tessuti. In generale, i markers possono essere rappresentati da cellule specifiche, molecole, geni, prodotti genici, enzimi, ormoni. Il loro utilizzo nella pratica clinica, in particolare come indici di laboratorio, è relativamente recente; gli approcci migliori verso questa pratica sono ancora in fase di sviluppo e perfezionamento, come per gli oncologici, i più richiesti e discussi. La ricerca di utili indici biologici non si è fermata in era Covid-19. Tra i tanti dati che stanno emergendo le concentrazioni di urea, creatinina (CREA) e cistatina C (CysC) nei pazienti con COVID-19 grave sono risultati significativamente più alte rispetto a quelle dei pazienti con COVID-19 lieve (P <0,001); questi dati non sono stati ancora sottoposti a peer review.  

   Questione chiave è determinare la relazione tra un dato biomarcatore misurabile e gli endpoint clinici rilevanti. Nel campo dell’imaging, non solo in oftalmologia, possono essere presi in considerazione strutture semplici o complesse rilevate dal device, una volta eliminati gli artefatti, riscontrati in relazione a cambiamenti dell’acuità visiva. Un indicatore ideale dovrebbe essere sicuro, facilmente determinabile, con un rapporto costo/beneficio conveniente, variabile e sensibile ai trattamenti intrapresi, coerente per genere e gruppo etnico, efficacemente specifico su possibili stati di malattia o di salute. Correlare i danni tomografici strutturali e vascolari, da non molto tempo diffusamente disponibili, e le variazioni funzionali che trovano nell’acuità visiva VA Visual Acuity la massima e più pertinente espressione misurabile, è stato e continua ad essere un proposito arduo, difficilmente attuabile, non oggetto finora di esaurienti e sistematiche trattazioni scientifiche.                                                                      

    Molti sono stati gli sforzi e i tentativi verso quest’obiettivo; i risultati tuttavia sono parziali, oggetto di approfondimento, discussione, fonte di critiche per l’inadeguatezza dei biomarkers di volta in volta presi in considerazione. Dall’avvento degli OCT/OCTA si è cercato e tuttora si ricercano correlazioni tra fine struttura tomografica intraretinica e corrispettive risposte funzionali. Sempre più dettagliato, veloce nell’esecuzione, migliorato nella qualità, il segnale tomografico offerto dai più moderni device SD-OCT/OCTA da 100 KHZ ha assunto ormai valore di dato istologico in vivo. Un fine da perseguire nell’imaging OCT/OCTA è stabilire il valore temporale degli eventi strutturali nelle patologie neuro-corio-retiniche. Determinarne la sequenza fisiopatologica degli eventi, evidenziando stabili correlazioni tra danno strutturale e rispondenza funzionale, con i migliori auspici, è un obbiettivo diffusamente sentito, un target perseguito da più gruppi di ricerca. Preservare più possibile la funzionalità visiva è, d’altra parte, il fine più elevato di ogni ricerca in oftalmologia, la pressante richiesta dei nostri pazienti.

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