L'angolo della lettura
23/06/2025 - La mania tutta americana di imporre dazi
Un po’ di storia
La parola dazio ha un’origine greca, deriva
dal termine “dekama”, più in particolare dal verbo greco “dekomai” che
significa “ricevere”. Adottato
dai romani (datio-onis), con significato di “il dare, il consegnare”, più
tardi approda al termine “datium –datii”, e così arriva ai giorni
nostri.
E’ un’imposta indiretta sui consumi, di
riscossione mediata, che colpisce la circolazione dei beni da uno stato
all’altro, dazio esterno o doganale, o anche in passato da un comune all’altro,
dazio interno. Può essere aggettivato anche come dazio d’importazione o
d’esportazione, d’entrata o d’uscita, di transito. Si riscuoteva nell’antichità
al passaggio della cinta daziaria in caso di comuni chiusi, oppure all’atto
dell’introduzione dei beni nelle botteghe di vendita al dettaglio nei comuni
aperti.
Nel Medioevo il dazio era chiamato gabella (dal
latino medievale gabella e dall’arabo qabāla, garanzia, cauzione, contratto). Il
frazionamento politico nel feudalesimo rese più complesso il movimento delle
merci. Con l'avvento del mercantilismo, la formazione delle signorie e degli
stati mutò la politica doganale. Lo sviluppo dei trattati commerciali e
l’istituzione di porti franchi portò maggiore liberalizzazione dei mercati e la
nascita di un sistema di dogane di confine.
Il mercantilismo, politica economica prevalente
in Europa dal XVI al XVII Secolo, esaltò il valore politico-economico del
dazio. Si basava sul concetto di predominio economico: una nazione era tanto
più potente quanto più le sue esportazioni fossero prevalenti sulle
importazioni. In economia si parla di surplus commerciale o di bilancia
commerciale positiva. Porre dazi è pratica tanto antica quanto la storia dell’umanità.
San Matteo, Apostolo e primo Evangelista, fu doganiere a Cafarnao prima della
sua conversione. Presso il lago di Tiberiade vi era uno snodo commerciale di
rilevante importanza dove era localizzato un ufficio doganale con un presidio
di soldati romani; i doganieri erano particolarmente invisi alla popolazione
locale. Presso quella dogana Matteo, figlio di Alfeo, colto e di ceto agiato,
svolgeva la sua attività riscuotendo dazi sulle merci che transitavano verso le
coste del Mediterraneo.
Dazi non solo di
Trump
Il Wall Street Journal, giornale conservatore,
ha definito i dazi di Trump “i più stupidi della storia”. Raramente c’è
stato tanto unanime consenso tra economisti ed esperti di mercati finanziari
nel dare un giudizio così negativo alla decisione di imporre dazi, reali o
minacciati, da parte di Trump. Le Tariff Act sono dazi imposti dagli USA a
cominciare dal 1789, anno della prima Tariff Act, l’Hamilton Tariff, dal nome
del Segretario del Tesoro Alexander Hamilton.
Fu promossa dal deputato James Madison,
approvata e firmata dal presidente George Washington, ratificata dal Congresso
degli Stati Uniti dopo la Costituzione del 1787. Dal 1789, per oltre 200 anni,
vennero emesse leggi e applicati dazi da parte di molti presidenti, ultima quella
del 2018, della prima amministrazione Trump. Pertanto i dazi non sono affatto
una novità nella politica degli Stati Uniti d’America.
Il più
evidente ripristino doganale del Novecento ci fu dopo il crollo dei mercati
finanziari del 1929 con la grave crisi economica che ne seguì. Nel 1930, il presidente
Repubblicano Herbert Hoover, approvò lo Smoot-Hawley Act, dal nome dei due parlamentari
primi firmatari. Reintroduceva dazi generalizzati per proteggere i prodotti
agricoli statunitensi dalla concorrenza estera. Esteso anche a molti beni
industriali, con il 20% sui prodotti importati dall’estero, provocò immediate
reazioni da parte degli stati europei, con conseguente riduzione di scambi
commerciali fino al 60% nei tre anni dopo.
Alcuni tra i più importanti storici ed
economisti ritennero quei dazi reciproci determinanti nell’aggravare la Grande
Depressione (Grande crisi o Crollo di Wall Street), dopo il
drammatico calo della Borsa di New York il 24 ottobre 1929, il cosiddetto
giovedì nero. In Europa favorirono il fallimento di alcune grandi banche nonchè
la nascita e la diffusione di ideologie estremiste e nazionaliste. Il presidente
Hoover, per tutta conseguenza, non venne più rieletto. Progressivamente dal
1934 al 1939 il suo successore, il democratico Franklin Delano Roosevelt, si
apprestò a firmare trattati di libero scambio, dando fine all’era hooveriana dei
dazi.
Dazi nel dopoguerra
Nel secondo dopoguerra la politica
statunitense superò la politica dei dazi non senza qualche eccezione. La
cosiddetta “guerra dei polli” scatenò una ritorsione degli US dopo che nel
1963 la Comunità Economica Europea approvò dazi contro le esportazioni di
pollame statunitense. Di tutta risposta il presidente Lyndon Johnson impose
dazi reciproci su varie merci. Alcuni di queste imposte sono ancora in vigore, come
quella del 25% sugli autoveicoli furgonati.
Nel 1987 Ronald Reagan impose ancora dazi
generalizzati del 100% sulle merci provenienti dal Giappone per riequilibrare
la bilancia commerciale; gli States importavano da Sol Levante molte più merci di
quante ne esportassero. L’intento era mettere in difficoltà la potente industria
automobilistica nipponica. La guerra per gli americani sembrava vinta; il
disavanzo da 55 miliardi di dollari passò a 43 miliardi di dollari. Ben presto
tuttavia il disavanzo ritornò a peggiorare; oggi è in negativo per 72 miliardi
di dollari a sfavore degli US.
La guerra dei dazi è stata sempre una
politica perdente per chi li impone; per gli USA particolarmente. La disputa
sull’acciaio, già oggetto di dazi nel 2002, ne è un altro esempio. Il presidente
repubblicano George W. Bush impose dazi a vari paesi, compresi quelli europei, escludendo
Canada e Messico, su questo prezioso metallo. Come conseguenza aumentarono le
importazioni di acciaio dagli altri paesi esenti. Il risultato fu tutt’altro
che incoraggiante: alcune piccole aziende statunitensi del settore, che non si erano
adeguate prontamente, entrarono in crisi. Dopo solo un anno dalla loro
immissione i dazi furono eliminati prima della prevista, temuta e annunciata
ritorsione da parte dell’Unione Europea.
Lo stop and go di
Trump…paga dazio
In
caso della presenza di dazi l’impresa importatrice può percorrere due possibili
strade: assorbirli per intero, riducendo il proprio ricavo sui prodotti venduti,
oppure trasferire il peso economico subito sul consumatore finale. Con la
grande concorrenza presente nei mercati in pratica è praticabile solo questa
seconda strada. Conseguente è il rialzo generalizzato dei costi nel settore
tassato; la riduzione di acquisto dei beni soggetti a dazi di conseguenza subiscono
inevitabili aumenti. Ad ogni mossa corrisponde una contro mossa; in campo economico
è questione di sopravvivenza, del tutto inevitabile. Il mercato, con politiche
restrittive, si irrigidisce; domanda e offerta rallentano, e i consumatori
finali pagano l’aumento dei prezzi.
Come tutta risposta alla politica di Trump gli
Stati Uniti non sono più meritevoli della tripla A, la piena affidabilità
finanziaria. Moody’s ha declassato il rating a lungo termine del debito americano
a livello “Aa1”. S&P nel 2011 e Fitch nel 2023 avevano già preso simili provvedimenti,
negando la tripla A all’attule amministrazione di Washington. Ogni anno gli USA
hanno bisogno, più di molti altri stati, di finanziare il proprio debito. E di
anno in anno alzano il tetto massimo del proprio debito per evitare il
cosiddetto “shutdown”, il blocco della spesa pubblica. Senza questo rialzo ci
sarebbe il collasso della macchina pubblica, il licenziamento di molta parte
della classe amministrativa.
La decisione di Moody’s ha bocciato dunque il
grado di solvibilità della prima economia al mondo; le agenzie di credito, le
Big Three credit rating agencies, ora sono tutte d’accordo. Al contrario, Donald
Trump crede che i dazi rafforzeranno gli US. Chi sbaglia? Negli ultimi 14 anni è
la prima volta che gli Stati Uniti sono senza Tripla A. E questo declassamento,
nell’opinione pubblica americana, costituisce un vero tornado; per il loro
morale è devastante quasi come la sconfitta del Vietnam. Il gigantesco deficit pubblico negli
Stati Uniti è il vero problema d’oltreoceano. Come risolverlo? Imponendo dazi,
semplice, pensa Trump.
Debito USA: le
reazioni dei miliardari
Attualmente il debito pubblico americano è intorno
ai 34.700 miliardi di dollari. Rapidamente cresciuto negli ultimi anni ammonta
al 129% del PIL nazionale. Pur se detenuto principalmente da investitori interni
con una quota minore di investitori esteri, circa il 30%, in futuro gli Usa potrebbero
non riuscire a trovare finanziamenti, avere difficoltà a vendere i propri titoli
di stato, i Treasury, e finanziarsi.
Questi titoli includono i Treasury bills con scadenza
a un anno, i Treasury notes con scadenza tra 1 e 10 anni, e i Treasury bonds con
scadenza oltre 10 anni. Donald Trump si è visto costretto a sospendere per
almeno 90 giorni i dazi che con trionfalismo enfatico voleva emanare. Le
quotazioni dei T-Bond, (Treasury Bond Usa), stavano andando a picco con aumento
dei rendimenti per i risparmiatori. Conseguenza: più interessi, più debito,
meno fiducia sul dollaro. E così, di colpo, la baldante tracotanza trumpiana dell’uomo
più potente e prepotente del mondo ha dovuto piegare la testa, è addivenuta a
più miti consigli.
Le minacce economiche, anche le più
stravaganti, se proferite dal presidente della più grande potenza
economica-militare del mondo sono sempre attenzionate dalla finanza, e, se
controproducenti per i mercati, si rivoltano contro, diventano un bumerang per
chi le sostiene.
Più commentatori di politica internazionale sono
dell’avviso che il primo ministro canadese Mark Carney, già governatore della
banca del Canada e d’Inghilterra, insieme al Giappone e alla Cina siano stati
determinanti a far cambiare opinione a Trump. Così, iniziata l’ondata di
sfiducia sul debito pubblico US, è arrivato il dietrofront di Trump.
Il Canada, considerato dal presidente US una
nazione senza futuro, tanto da prospettarne l’annessione come 51 stato
dell’unione, primo obbiettivo nella lista dei pesantissimi dazi presidenziali, è
il sesto paese a detenere T-Bond US per 378 miliardi di dollari. La
prima nazione è il Giappone, con oltre mille miliardi di dollari; la Cina, in
seconda posizione, ne possiede 759 miliardi. L’insieme degli stati europei hanno
circa 1500 miliardi di dollari in T-Bond. La Gran Bretagna ne possiede
722 miliardi, il Belgio 374, la Francia 332, la Germania 97. Se riuniti costituirebbero
la seconda potenza mondiale dopo il Giappone a detenere Treasury
Bond Usa, sopravanzando anche la Cina. La debolezza dell’Europa si vede anche
in questo. Una grande potenza, ma divisa.
Minacciare dazi punitivi, anche se può essere
tendenzialmente una leva positiva, un modo per costringere altri Paesi ad
acquistare titoli di Stato americani, alla fine si è rivelato un errore, un
grave azzardo. Possibile che nessuno dello staff non lo abbia previsto, non
abbia avvertito il presidente, non sia riuscito a fermarlo? Anche chi lo appoggiava,
ora sui dazi prende le distanze dallo scapigliato presidente biondo-fluente.
Elion Musk di recente si è scontrato con
Peter Navarro, principale consigliere economico di Trump, definendolo un “cretino,
più stupido di un sacco di mattoni”.
Kenneth Cordele Griffin, detto Ken, imprenditore
statunitense, miliardario, fondatore e
proprietario (con l'80%) di Citadel LLC, un hedge fund multinazionale, (fondo
speculativo), munifico elargitore del Partito Repubblicano, ha dichiarato che i
dazi di Trump rappresentano un “enorme errore di politica”.
Jamie Dimon, amministratore delegato di JPMorgan
Chase & Co. (JPMorganChase), multinazionale finanziaria americana con sede
a New York, la più grande banca degli Stati Uniti e la più grande al mondo per
capitalizzazione di mercato al 2024, la prima delle “Big Four” le quattro
grandi banche che negli US detengono circa il 45% di tutti i depositi gli statunitensi,
ha detto che “è probabile che assisteremo a risultati inflazionistici, non
solo sui beni importati ma anche sui prezzi nazionali”.
Laurence Douglas Fink, detto Larry, nel 2018 secondo
Forbes 28° uomo più potente del mondo, amministratore delegato di BlackRock, società
di investimento con sede a New York, leader in America per ETF, exchange-traded
fund, fondo scambiato in borsa, e per ETC, exchange-traded commodity, strumenti
finanziari che permettono investimenti diretti o derivati sulle materie prime, durante
un evento all’Economic Club della Grande Mela ha detto che “l’economia si
sta indebolendo mentre parliamo” e ha
ipotizzato che gli Stati Uniti sono “probabilmente già in recessione”.
Ken Langone, cofondatore di Home Depot, Inc.,
il più grande rivenditore di articoli per casalinghi negli Stati Uniti e grande
donatore del GOP, Grand Old Party, acronimo con cui è conosciuto anche il
Partito Repubblicano, ha dichiarato al Financial Times di credere che Trump sia
stato “mal consigliato dai suoi consiglieri su questa questione
commerciale”.
Non ultimo l’annuncio di imporre dazi del 25%
ad Apple se non produrrà i suoi iPhone negli Stati Uniti. Risultato: Apple
perde immediatamente il 2,86%; l’agenzia Bloomberg, nota multinazionale nel
settore dei mass media con sede nella Bloomberg Tower al 731 di Lexington
Avenue a Manhattan, riporta che l’azienda ha bruciato più di 100 miliardi delle
sue quotazioni all'avvio delle contrattazioni.
Quando finirà questa storia? Non lo sappiamo.
Ma sappiamo che se rispettare la volontà popolare è e resta un pilastro della
democrazia, anche se chi ha votato si rende conto di aver mal riposto la propria
fiducia, i pilastri dell’economia sono ben altri. La credibilità politica di
uno Stato, e di chi lo governa, può determinare tsunami nelle borse. Lo stop
and go in politica mina ogni credibilità e affidabilità. Questa politica degli
annunci alla fine gioverà o travolgerà Trump? Vedremo. Nel frattempo, il
ballerino e disinvolto presidente US agli occhi del mondo, e degli statunitensi
particolarmente, una bella figura non la sta affatto facendo.
