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Argomento : 4

IL DANNO RETINICO

IL DANNO RETINICO

La retina umana nelle normali condizioni di vita è sottoposta ad irradianze di 10-4 W cm2, mentre l’osservazione diretta del sole porta l’irradianza a 10W cm2, cioè 100.000 maggiore (Marshall). Una relazione causale fra alcuni tipi di danni retinici e l’osservazione del sole è stata sospettata da molto tempo e si è perfino scritto che la funzione visiva di Galileo avesse sofferto per le ripetute osservazioni astronomiche (Sliney e Wolbarsht ) dato che la pupilla d’entrata dell’occhio che guarda attraverso un telescopio è molto maggiore che nell’occhio nudo. Questi danni furono inizialmente attribuiti ad una coagulazione termica, ma oggi si sa che l’aumento di temperatura a cui va incontro la retina è bassa, normalmente contenuta entro i 4°C se la pupilla si è ristretta come di norma a diametri non superiori a 3mm (White e coll.). Però già una pupilla di 7mm, come potrebbe verificarsi durante le osservazioni delle eclissi, può fare aumentare la temperatura di oltre 22° e quindi addirittura al di sopra di quella che si verifica in seguito a trattamenti laser, per i quali il danno termico è denunciato dall’immediato sbiancamento della retina trattata in piccoli focolai. L’aumento di temperatura si accresce se l’esposizione si prolunga, ma non in maniera sostanziale dato che il calore prodottosi viene smaltito dalla circolazione coroideale. La possibilitá che l’UV sia la responsabile di lesioni retiniche al polo posteriore è andata crescendo dopo l’osservazione fatta nel 1902, in saldatori con l’arco elettrico di una retinopatia, simile a quella da eclisse, che spesso finiva con un foro maculare (Naidoff e Sliney). In queste condizioni l’innalzamento della temperatura a livello retinico è trascurabile mentre potrebbe non essere trascurabile quello del globo oculare in toto. E’ possibile che l’aumento di temperatura favorisca l’insorgenza del danno fotochimico (White e coll.). Se il danno fotochimico è principalmente prodotto da radiazioni a lunghezza d’onda breve, specialmente UV, si potrebbe pensare che la retina, situata dietro i mezzi diottrici e soprattutto dietro il cristallino che assorbe gli UV, non dovrebbe accusare danni indotti da questo meccanismo. D’altra parte la stessa retina è in qualche modo protetta da queste radiazioni dalla xantofilla presente negli strati plessiformi interno ed esterno, non solo capace di assorbire l’UV ed il visibile di più breve lunghezza d’onda ma anche di proteggere dai danni attivati dall’ossigeno (Kirschfeld). Questa idea è sbagliata poiché, anche se solo una piccola parte di fotoni UV-A raggiunge la retina essi possono comunque iniziare il fenomeno che porterá al danno, data la loro elevata energia (Mellerio). Si ritiene che ci siano due classi di danno fotochimico alla retina; i due tipi sono chiamati molto semplicemente di tipo 1 e di tipo 2. Il danno di tipo 1 si verifica dopo lunghe esposizioni (ore o anche giorni) a irradianze non elevate e si manifesta inizialmente su ampie zone della retina a livello dei fotorecettori. Questo tipo di danno è stato descritto per la prima volta da Noell e coll. nei ratti esposti per qualche ora al giorno alla luce di una semplice lampada fluorescente. I primi elementi di un fotorecettore ad essere attaccati sono le lamelle nei segmenti esterni dei coni che sono molto più sensibili dei bastoncelli a questo danno, dopo l’esposizione di un solo giorno a lampade fluorescenti (Marshall, Mellerio e Palmer). Caratteristico è l’aspetto "tarmato" delle membrane fosfolipidiche che la perossidazione lipidica ha prodotto, molto probabilmente sensibilizzata da un sensibilizzatore retinico endogeno, che con tutta probabilitá è la stessa rodopsina o pigmento visivo (van Norren e Schellekens , Rapp e coll.). Questo tipo di lesione può tradursi in una cecitá per i colori (Horwerth e Sperling). È qui opportuno ricordare che Arden e coll. hanno osservato che gli oculisti che lavorano molto con l’argon laser (verde-bleu) sviluppano un’alterazione della visione dei colori (tritanomalia). Il danno di tipo 2 richiede esposizioni di più breve durata ma di elevata irradianza. La lesione è più localizzata (Ham e coll. Kremers, van Norren). Per queste irradianze il pigmento visivo è rapidamente sbiancato ed allontanato dai fotorecettori verso l’epitelio pigmentato. Si ritiene pertanto che questo tipo di danno abbia origine nell’epitelio pigmentato retinico e che possa essere sensibilizzato da qualche prodotto dello sbiancamento dei fotorecettori (Rapp e coll.). Ham e coll. ha misurato lo spettro d’azione del danno e ha dimostrato che esso aumentava la sua sensibilitá con il ridursi della lunghezza d’onda della luce. Di conseguenza questo danno di tipo 2 è a volte conosciuto come "danno Ham" o "da luce blu". È stato suggerito che la melanina sia il sensibilizzatore iniziale, ma anche lo spettro del danno da luce blu non si avvicina neanche lontanamente allo spettro d’assorbimento della melanina per la captazione dell’ossigeno o per l’assorbimento della melanina in soluzione (Sarna e Sealy ). Nel danno da luce blu Rapp e coll., giá citati suggeriscono che gli enzimi mitocondriali possano agire da sensibilizzatori. Questi organelli infatti si rigonfiano precocemente. Infine è da tenere presente che si sostiene che un elevato contenuto di ossigeno anche respiratorio accelera la comparsa ed aumenta la gravitá del danno (Jaffe e coll.)

DEGENERAZIONE MACULARE LEGATA ALL’ETÀ

Il danno che le radiazioni possono provocare alla retina è, a differenza dei danni arrecati ad altre strutture oculari, in larga misura irreversibile e comunque, almeno fino ad ora, non sicuramente trattabile.

Questo danno retinico è massimo proprio nel centro della retina, cioè nella macula. Tale comportamento è stato dimostrato sia sperimentalmente che clinicamente, ma le ragioni non sono chiare. Infatti le peculiaritá anatomiche della retina in regione maculare appaiono poco o per nulla determinanti, dato che il danno da luce ha questa localizzazione preferenziale anche in specie animali sprovviste di una macula anatomicamente differenziata. Si ritiene che la zona centrale della retina sia investita da una quantitá maggiore di radiazioni per motivi ottici.

Gli effetti dannosi della luce degli strumenti di esplorazione dell’occhio e dei microscopi operatori sono ormai ben documentati e si vanno sviluppando sistemi di protezione da questi danni. Viceversa sembra che la risposta alla domanda se la luce produce un danno a lungo termine alla retina negli esseri umani rimanga aperta. L’evidenza epidemiologica suggerisce che non sia così, mentre gli studi di laboratorio e altri lavori sollevano dubbi e sospetti sull’esposizione a lungo termine come fattore causativo.

Tra queste malattie, per le quali si suppone una certa influenza dell’esposizione alla luce, vi è la degenerazione maculare dovuta all’etá. Essa deteriora la vista perché aggredisce soprattutto la retina maculare e quindi il centro del campo visivo, dove l’acutezza visiva è massima; il punto di fissazione è oscurato da un’area cieca.

La perdita della vista avviene perchè le cellule visive, coni e bastoncelli, degenerano e muoiono nella regione maculare della retina. Come per la cataratta, la degenerazione maculare è il risultato finale di un processo di deterioramento durato per decadi, e quindi la sua diffusione aumenta con l’etá.

Dopo i 75 anni, c’è un 30% di possibilitá di menomazione visiva dovuto a questa malattia (Young) e circa il 46-50% dei pazienti anziani diventati ciechi lo sono per degenerazione maculare legata all’etá. (Gibson e coll.) Non si può far nulla per restituire la vista alle persone colpite da questa malattia; lo scotoma centrale è permanente.

Il deterioramento avviene più rapidamente negli strati esterni della retina posti centralmente, nello strato delle cellule epiteliali pigmentate e nei coni e bastoncelli adiacenti. Cominciando fin dalla giovane età, residui di molecole assemblate in modo incompleto, chiamate "lipofuscina", cominciano ad accumularsi nelle cellule epiteliali pigmentate. La lipofuscina deriva dai substrati di cellule che sono state danneggiate così gravemente da essere inassimilabili.

Col passare degli anni, le cellule diventano congestionate da questi sacchi di molecole denaturate e cominciano a liberare escrezioni anomale dalla loro superficie basale. Questi prodotti di scarto anomali producono una distorsione meccanica, un’interferenza con lo scambio di fluidi e di metaboliti fra retina e coroide, ed una ridotta adesione cellulare.

Infine, entro alcuni anni, la funzione visiva comincia ad essere disturbata; la vista è persa quando le cellule dei fotorecettori muoiono. Questa morte è un effetto secondario risultante dalla morte delle cellule epiteliali pigmentarie da cui dipendono, o dalle conseguenze distruttive dei vasi sanguigni che invadono gli anomali depositi extra cellulari. Sono state identificate 3 cause di deterioramento della retina; esse sono le stesse di quelle che producono il deterioramento del cristallino: calore, ossigeno e luce solare, con una piccola ma significativa differenza rispetto al cristallino. Nel caso della retina, è la radiazione visibile ad alta energia (HEV – Higt Energy Visible), piuttosto che la ultravioletta, ad essere responsabile degli effetti deleteri della luce solare. Questo non perché i fotoni UV non siano pericolosi, anzi sono i più pericolosi ma in condizioni fisiologiche con il passare degli anni sono ancora di più assorbiti dalla cornea e dal cristallino e normalmente non raggiungono la retina; tuttavia, se il cristallino viene rimosso (come in una operazione di cataratta) e non sostituito con una IOL UV blocking la radiazione UV può colpire la retina ed essere ancora più dannosa della radiazione visibile ad alta energia (HEV) (Cech e coll., Stamler e coll., Werner e coll.). È da dire però che questa maculopatia che potrebbe anche essere chiamata sperimentale ha una tendenza spontanea verso la guarigione dopo qualche mese dall’inizio (Lindquist e coll.) I fotoni con l’energia più alta che penetrano fino alla retina sono percepiti come di colore "violetto", come l’energia diminuisce, il violetto si mescola al "blu". È questa componente violetta blu della luce solare che è dannosa per la retina, il resto dello spettro solare è innocuo. Studi sperimentali hanno dimostrato il perché la retina esterna sia così soggetta al danno da radiazione visibile ad alta energia: ciò è dovuto principalmente all’alta concentrazione di ossigeno, ai densi strati di lipidi sensibili all’ossidazione, e alla presenza di molecole pigmentate che intrappolano i fotoni. Come anche nota è la ragione per cui la distruzione molecolare comincia al confine con il "blu": questo è il primo livello di energia del fotone in cui diviene possibile l’eccitazione elettronica. Gli individui con occhi molto pigmentati hanno un minore rischio di degenerazione maculare; infatti la melanina assorbe le radiazioni e le dissipa come calore.

I soggetti con cataratta sono anch’essi a basso rischio: il loro cristallino assorbe e dissipa ancor di più i fotoni blu/violetti. Studi condotti su soggetti esposti a condizioni di forte luminosità come lo furono i prigionieri di guerra nel Sud-Est asiatico (Young), e quali i pescatori (Taylor e coll.) confermano che il rischio di degenerazione maculare legata all’etá aumenta con la durata dell’esposizione alla luce solare. Anche se si ammette che la luce sia un fattore se non casuale almeno di rischio per la degenerazione maculare dovuta all’etá non è chiaro se questa malattia vada considerata come un danno di tipo I data la lunga durata della esposizione per anni e decenni o piuttosto di tipo II, data la dichiarata maggiore pericolositá delle radiazioni UV. (Mellerio).

Come prova indiretta al rapporto tra esposizione alle radiazioni e danno retinico (con particolare riferimento alla degenerazione maculare correlata con l’etá) sta il fatto che l’abbondanza di melanina, presente nei tessuti oculari diminuisce la probabilitá di andare incontro a tale affezione.

In uno studio condotto da Weitter e Coll. (1985) su 650 soggetti affetti da degenerazione maculare cosiddetta "senile" è stato osservato che il 76% dei soggetti affetti presentavano iride chiara ed il 57% capelli chiari.

Queste frequenze, paragonate ad un gruppo di controllo, evidenziano una correlazione statisticamente significativa tra prevalenza della degenerazione maculare e colore dell’iride.

Studi epidemiologici hanno inoltre confermato che la degenerazione maculare correlata con l’etá è prevalente nella razza bianca rispetto alla razza nera. È stato precedentemente segnalato che le radiazioni assorbite dal cristallino giuocano un ruolo nel determinismo della cataratta correlata con l’etá. È però sorprendente come questa situazione finisca con l’esercitare un ruolo protettivo nei confronti della retina. Esistono studi documentati dai quali risulta che in presenza di opacitá del cristallino, e particolarmente di opacitá nucleari l’incidenza della degenerazione maculare correlata con l’etá è decisamente inferiore. In uno studio condotto da Gjessing nel 1953 in Norvegia, su una popolazione di 8694 individui di etá superiore ai 55 anni per complessivi 17314 occhi, la frequenza di alterazioni maculari è nettamente inferiore nei soggetti affetti da alterazione della trasparenza del cristallino.

La lettura del grafico ci permette di fare una interessante considerazione: le radiazioni assorbite dal cristallino concorrono nel determinismo della cataratta correlata con l’etá, tali opacitá tuttavia, accrescendo le capacita filtranti del cristallino stesso per le radiazioni a bassa lunghezza d’onda costituiscono una ulteriore protezione per la retina. da www.intercast.it   

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